
Se il papa è il vicario di Cristo, è ovvio che debba andare più dagli ammalati che dai sani. E Wojtyla ci va, eccome. Eccolo allora contribuire alla cultura e alla civiltà della nostra epoca a Santiago del Cile nell’aprile del 1987, in visita pastorale dal generale Augusto Pinochet dove, come commenta un sito della destra cilena ricco di fotografie (http://anticomunismo.8m.com/tata4.html), “due grandi leader anticomunisti si incontrano”. La più celebre immagine di queste giornate è la foto scattata il 6 aprile, quando generale e papa si affacciano assieme da un balcone della Moneda, il palazzo presidenziale nel quale perì Salvador Allende (presidente del Cile democraticamente eletto) durante il sanguinario colpo di stato dell’11 settembre 1973, che portò al potere lo stesso Pinochet. Pinochet, come si usa, gli presenta la moglie. Wojtyla, se ne ricorda e per le nozze d’argento gli manda gli auguri, con una sobria lettera autografa. Infine, quando Pinochet è catturato in Inghilterra su mandato internazionale spiccato dal giudice spagnolo Baltasàr Garzon con l’imputazione di tortura ed omicidio di cittadini spagnoli (1999), Wojtyla stesso si preoccupa di far giungere alla Camera dei Lord la propria preferenza perché questa non concedesse l’estradizione dell’ex dittatore in Spagna, dove i giudici lo attendevano con le manette pronte. Per il caso “dell’ammalato” Pinochet, il papa manifesta un vero e proprio accanimento terapeutico dato che, sempre nel 1999, rivolge una plateale richiesta di perdono per i crimini da lui commessi, alla quale le Madres de Plaza de Mayo (l’associazione delle madri delle vittime del regime argentino) rispondono con una lettera dove si augurano che, da morto, Wojtyla non riceva il perdono di Dio e vada all’inferno (Buenos Aires, 23 febbraio 1999). Facciamo un passo indietro ma rimaniamo nella cattolicissima America Latina, dove Wojtyla imperversa. Eccolo infatti, nel 1980, accorrere in aiuto della giunta militare di San Salvador, minacciata dalle omelie dell’arcivescovo Oscar Romero. La tesi statunitense, sostenuta dal presidente Jimmy Carter (ora premio Nobel per la pace), è che la giunta militare salvadoregna fosse in realtà un debole governo democratico, strapazzato tra le violenze dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Le cose non stavano esattamente così, dal momento che la stessa giunta aveva preso il potere con un colpo di stato il 15 ottobre 1979, favorita dall’amministrazione Carter che vedeva nel governo precedente del Salvador, relativamente democratico e riformista, un ostacolo alle proprie politiche commerciali e all’egemonia politica sul Centro america. Secondo fonti ecclesiastiche, dal gennaio 1980 al mese di maggio dello stesso anno il governo salvadoregno uccise 1844 civili (alla fine dell’anno arrivarono a circa 10mila). Per Carter, tutte queste uccisioni erano da addebitare alle citate frange violente degli opposti estremismi, e ciò giustificava i generosi aiuti militari che gli Stati Uniti fornivano al governo “di centro”, impegnato in una faticosa “costruzione democratica”. Il vescovo Romero non la pensava così, e il 17 febbraio 1980 scrisse una lunga lettera a Carter nella quale chiedeva di cessare l’erogazione degli aiuti in favore della giunta, che descriveva per il regime sanguinario che era e alla quale attribuiva tutte le responsabilità per la situazione di terrore e per le uccisioni degli avversari politici. Carter andò su tutte le furie ed inviò un messo presso il papa, affinché egli stesso mettesse a tacere Romero. Nel mese di marzo del 1980 durante l’omelia domenicale, il vescovo esortò i militari a cessare di uccidere i propri connazionali, denunciando così in maniera eclatante le responsabilità del regime. Wojtyla non appoggiò le posizioni di Romero, ma anzi richiamò a Roma il superiore dei gesuiti del Centro America. Il 24 marzo 1980 Romero fu assassinato mentre diceva messa nella cattedrale di El Salvador, colpito al cuore da una fucilata proveniente dal fondo della chiesa. Anche in quel caso, Wojtyla non andò oltre la manifestazione di un formale dolore. Evidentemente, tra i compiti di chi deve accorrere presso gli “ammalati” rientra anche quello di fregarsene dei “sani”, quando non addirittura quello di prenderli a calci.
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